17 marzo, 2007

"LA SCOMPARSA DEI FATTI. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni" di Marco Travaglio


E' bello, di questi tempi, sentirsi -qualche volta- in sintonia con qualcuno. Anche solo un po' o solo su qualche punto specifico. Qualcuno che tu non conosci di persona, che non hai mai incontrato e forse non incontrerai mai. Qualcuno che la pensi anche diversamente da te e che fa un mestiere diverso dal tuo. Qualcuno a cui non devi nulla e che non ti deve nulla, se usiamo i parametri della logica che mette un prezzo a tutto e tutto mercifica.
Fa riflettere, dovrebbe far riflettere, la consapevolezza di quanto sia difficile, di questi tempi, sentirsi -al di fuori del proprio, ristretto e comodo entourage- in sintonia con qualcuno, sul piano delle idee. Sintonia che inaspettatatamente ricavi anche dalla semplice lettura di un libro. Un libro non di letteratura, ma di denuncia. Un libro che mentre parla di informazione, anzi del modo di (non) fare informazione, in Italia, qualche notizia nuova te la dà.
Fatte poche, pochissime eccezioni, la nostra è un'informazione in cui regnano sovrane le opinioni: opinioni che si creano, che vengono create, anzi che qualcuno crea. Insomma un'informazione che si alimenta, nel migliore dei casi, del nulla o, nel peggiore, di idee PGM (parteno-geneticamente-modificate). Un'informazione che accomuna miseramente, compiacendosi e compiacendole, le nuove, piccole oligarchie odierne e che tiene accuratamente i più - il più possibile lontani da (e all'oscuro di) tutto ciò che sarebbe opportuno sapere e utile loro per capire davvero.
Nel suo ultimo libro, La scomparsa dei fatti (Il Saggiatore, 2007), Marco Travaglio scrive, a pag. 21 della Premessa: "Come diceva Montanelli, la differenza fra chi scrive per i suoi lettori e chi scrive per altri si nota subito: il primo parla chiaro e lo capiscono tutti, il secondo parla in codice e lo capisce solo chi lo deve capire".
Subito dopo, a pagina 23, leggiamo: "Il buon giornalista deve conoscere anzitutto i fondamentali del suo mestiere, per saper distinguere le fonti attendibili da quelle inattendibili, per verificarle correttamente, per allenare il suo occhio a mettere a fuoco il nucleo portante di ogni fatto e per saperlo raccontare nel modo più comprensibile e completo".
In varie occasioni abbiamo sottolineato che parlar chiaro e nel modo più comprensibile (e completo) possibile non è un'azione neutra e priva di effetti collaterali, oltre a essere, in Italia, un'arte poco conosciuta e ancor meno praticata e apprezzata. Ma soprattutto è un terreno scivoloso anche per chi ne rivendica e sostiene l'urgenza.
Ma c'è da chiedersi che cosa oggi si intenda comunemente per "parlar chiaro" e "nel modo più comprensibile" possibile.
Qualche aiuto -per restituire senso e dignità alle parole (e ai loro utenti)- può venirci dalla angosciante (ri)lettura de I principi della neolingua, in appendice al romanzo 1884 dello scrittore inglese Eric Arthur Blair, nato in India nel 1903. Scrittore a tutti noto con lo pseudonomo di George Orwell.
"Sapere e non sapere. Essere cosciente della suprema verità nel mentre che si dicono ben architettate menzogne, condividere contemporaneamente due opinioni che si annullano a vicenda, sapere che esse sono contraddittorie e credere in entrambe. Usare la logica contro la logica, ripudiare la morale nel mentre che la si adotta, credere che la democrazia è impossibile e che il Partito è il custode della democrazia. Dimenticare tutto quel che era necessario dimenticare, e quindi richiamarlo alla memoria nel momento in cui sarebbe stato necessario, e quindi, con prontezza, dimenticarlo da capo" (1984, pag. 58).
Quando si entra su terreni così delicati (come il rapporto tra l'uso/gli usi della lingua e il potere, tra le notizie e le opinioni dei giornalisti e commentatori, tra le idee personali e il bene comune, tra gli interessi dei singoli e quelli della collettività in uno stato democratico) non è facile uscirne senza avere o provocare qualche capogiro. Per non cadere, occorre avere gli strumenti per sorreggersi: una logica che non si autodemolisca, una morale che non sia ripudiata nei fatti mentre la si invoca a parole, una fede democratica che non diventi la "carta dei servizi" delle varie consorterie, una memoria che non funzioni a gettoni o a tempo determinato, per non dire a comando.
Occorre, insomma, conoscere e padroneggiare quelle che Tullio De Mauro -nel 1988- chiamò sagacemente "le tecniche, i trucchi e le trappole" della comunicazione, scritta e parlata. Così oltre agli illeggibili, potranno essere smascherati anche tanti inutili parolai nostrani, solo apparentemente leggibili e comprensibili.
Emanuela Piemontese

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